Il “palazzaccio” di piazza Cavour

Brano edito negli ultimi anni dello scorso secolo dallo scrittore e critico d’arte Armando Ravaglioli, che descrive storia e vicissitudini dell’edificio dove ha sede, tra l’altro, la Suprema Corte di Cassazione.

Il più grande edificio della terza Italia

L’idea del palazzo di Giustizia trova un ideale atto di nascita nel dibattito parlamentare del 1880 per il concorso finanziario dello Stato alla trasformazione edilizia e urbanistica di Roma. La capitale, nel decennio precedente, aveva affrontato un enorme numero di lavori, ma essi erano legati piuttosto alle emergenze immediate che non a un chiaro disegno di trasformazione. Coloro che vedevano in grande e che avevano un gran concetto dell’avvenire cui la città era chiamata – dal colonnello Pianciani in Campidoglio, sindaco a due riprese, a Quintino Sella a Montecitorio – spingevano per ottenere una previsione di insieme delle opere necessarie da intraprendere e per ottenere alla città un congruo appoggio finanziario dello Stato.

Finalmente tra l’80 e l’81 l’accordo venne fatto. Lo Stato avrebbe versato 50 miliardi a Roma nel corso di venti anni e, sulla base di tale finanziamento, la città avrebbe provveduto alla costruzione di una lunga serie di opere pubbliche. Per la verità troppo lunga; esse andavano dai lavori per i muraglioni del Tevere alle caserme, dal palazzo delle Scienze per l’Accademia dei Lincei al Policlinico. E, fra i tanti, era compreso il palazzo di Giustizia. 

Naturalmente non tutti erano d’accordo. Ad esempio molti consiglieri comunali che ritenevano giustamente insufficiente il contributo e che si prospettavano l’esigenza di altri prestiti, o il Crispi che voleva nella zona dei Fori un immenso palazzo del Parlamento, e che pensava di cedere Montecitorio alla Giustizia. Intanto questa era disarticolata dentro Roma, con la sua sede più importante nell’ex convento dei Filippini alla Chiesa Nuova ma con uffici vari dispersi un po’ dappertutto. Si pensi alla stessa Corte di Cassazione che, parzialmente unificata in Roma (i precedenti Stati della penisola avevano conservato ciascuno la sua), iniziò i suoi lavori il 4 marzo 1876 in palazzo Spada ed ebbe poi altra sede a palazzo Altieri, in attesa di sistemazione congrua e definitiva.

Nel sollecitare la costruzione del palazzo di Giustizia, nel quadro dei lavori da imporre al Comune, Quintino Sella e Nicola Fabrizi, alla Camera dei Deputati, ammonirono che si curasse di avere una costruzione degna della funzione della Giustizia. Non occorrevano certo sproni allo Zanardelli che del palazzo fece lo scopo della sua avanzata maturità e della sua vecchiezza (senza poter ottenere di vederlo costruito prima di morire). Egli trasfuse quegli incitamenti nel bando di concorso che riuscì a fare varare nel maggio del 1883. Nell’anno precedente egli aveva risolto la questione della collocazione dell’edificio che aveva tenuto in agitazione l’opinione pubblica e che soprattutto aveva fatto accapigliare la classe forense. Tutta la città era stata messa idealmente a soqquadro per individuare il luogo più acconcio alla nuova costruzione, ma le proposte definitive, che vennero avanzate a nome di 121 avvocati, concernevano la Pilotta o Magnanapoli (figurarsi che cosa sarebbe successo a quella delicatissima zona del centro storico se il palazzone vi avesse appuntato gli artigli!). Invece un fortissimo gruppo di pressione sosteneva la zona di Prati, in rapida fase di urbanizzazione.

L’area che sembrava più idonea era un vastissimo slargo di quasi 28 mila metri quadri tra il lungotevere e la piazza principale del nuovo quartiere (quella che sarebbe stata la piazza Cavour). Si era avuta l’idea di collocarci un teatro o la Borsa di Commercio, tanto per pensare a qualcosa di monumentale; ma il palazzo di Giustizia andava meglio.

Il bando di concorso metteva a disposizione l’area suddetta e prescriveva di realizzarvi trecento vani nei quali avrebbe dovuto essere accolto l’intero apparato della Giustizia in Roma, dalla Corte di Cassazione all’appello, alle assise, ai tribunali civile, penale e di commercio, alle preture e infine all’ordine degli avvocati. La spesa doveva rientrare negli otto milioni previsti nel riparto dell’assegnazione statale per Roma (negli otto milioni non erano compresi i costi delle parti ornamentali).

A questo punto, cominciano i guai, perché l’ufficio tecnico comunale sbaglia nel fornire i capisaldi dei livelli altimetrici (oggi diremmo il verbale di linee e quote). Per questo motivo, visto che i dati non vennero successivamente corretti, la costruzione terminò per avere un dislivello tra il prospetto sul lungotevere, in seguito costruito, e il prospetto della piazza. Ma cominciano anche i ritardi.

Una prima prova del concorso si concluse praticamente senza risultato, nell’inerzia dell’amministrazione non più guidata dall’energico Zanardelli. Una seconda gara, espletata nel 1887 con 48 concorrenti, classifica fuori concorso il Carimini (che pare utilizzasse successivamente il suo progetto per un edificio in America), e’ mantiene in gara quattro progetti (quelli del Calderini, del Basile, del Nardoni e del Guerra). Tornato al ministero lo Zanardelli, fece svolgere una nuova prova tra i quattro e altri tre dei successivi classificati e finalmente invitò a una specie di spareggio, nel tempo ristretto di 40 giorni, il Basile e il Calderini. Questi ebbe la meglio.

Perché vinse Calderini e perché il suo progetto venne ritenuto degno di Roma? Rifacciamoci all’epoca e ai suoi «idola» (ogni epoca ha i propri e, mentre è giusto e giovevole individuarli e riconoscerne le conseguenze sul piano storico e sociale, è futile giudicarli e magari condannarli alla luce di concetti e di «idola» posteriori). Nella seconda metà dell’Ottocento i fermenti lasciati dal Romanticismo e dal Neoclassico si combinavano nella ricerca monumentale in architettura. Le mirabili sorti e progressive, nelle quali si continuava a credere con un ottimismo che gli sviluppi produttivi e finanziari dei maggiori paesi europei giustificavano, richiedevano di essere propiziate con una architettura ampollosa e magniloquente. Cerchiamo di ricordare le costruzioni parigine del secondo impero e quelle bismarckiane di Berlino e i templi elevati alla borsa e alla finanza in genere nella pur misurata capitale inglese. D’altra parte c’è un esempio ancor più calzante ed è il colossale palazzo di Giustizia costruito nella capitale del piccolo Belgio dal Polaert negli anni dal 1866 al 1883. Certo abbiamo presente la pesante cupola che, dalla sua altezza di 118 metri, domina il severo edificio il quale non ha nulla da invidiare al nostro in fatto di colonnati in stile e di statue dei più famosi oratori-avvocati dell’antichità.

Zanardelli vedeva nella Legge quel che il Sella vedeva nella Scienza. La giovane, piccola Italia arrivata all’unità, sentiva il bisogno di darsi uno scopo, giustificando il suo arrivo sulla scena del mondo, che altre volte l’aveva veduta protagonista, e soprattutto giustificando il fatto di aver preteso come capitale la solennissima Roma, sottraendola al destino, in cui essa si era adagiata, di città papale.

Per esaltare la funzione della Legge, garanzia di equilibrata Giustizia e di Libertà per tutti occorreva, secondo l’avvocato Zanardelli, elevarle «un monumento di severa bellezza il quale accoppiò la venustà e la eleganza alle impronte di quella maestà e di quella forza che sono gli attributi della Legge e del Diritto».

C’è da chiedersi se questa fosse la maggiore preoccupazione anche di quelle sterminate plebi del Nord, come del Mezzogiorno, che erano costrette a misurare il sale per la polenta, che soffrivano di pellagra, che cominciavano a partire col passaporto rosso e che s’accorgevano di aver cambiato condizione, nei rispetti dei precedenti padroni, solamente perché adesso si pagavano più tasse ed era arrivata la leva militare.

Ma tant’è. Fissati certi presupposti, chiarito che si teneva soprattutto al solenne e al grandioso, il progetto n. 18, contrassegnato dal motto «Imponente» e nel quale il perugino Calderini aveva condensato la lezione dell’arte classica con le sperimentazioni chiaroscurali dell’architettura rinascimentale veneta, era destinato alla vittoria e ad esprimere nel futuro il significato del Potere giudiziario nello Stato democratico.

Del resto quel che lo stile, di per sé declamatorio, non avrebbe reso sufficientemente trasparente, sarebbe stato proclamato ai quattro venti dalle frasi solenni destinate a coronare tutti i fastigi: quelle frasi previste in progetto e la cui stesura definitiva era stata affidata da Zanardelli al filologo Schupfer e che, per il mancato coordinamento tra la loro fusione in tavole di bronzo e la demolizione dei ponteggi, non vennero mai collocate in opera.

II Calderini, docente nell’università di Pisa e poi in quella di Roma, era, oltre che un progettista d’ingegno, anche un tecnico scrupoloso. Ce lo attesta la relazione da lui scritta nel 1890 e affidata ad un ricco volume di grandissime dimensioni e di adeguata decorazione. Egli si preoccupò in particolare delle fondazioni per ovviare agli inconvenienti propri del suolo d’Oltretevere il quale, nei secoli andati, aveva provocato dissesti nei pilastri bramanteschi della cupola di S. Pietro (il sottosuolo del Vaticano, dice Calderini, è della stessa natura di quello di Prati) e che, nella fase di edificazione del nuovo quartiere, aveva dato qualche sorpresa ai costruttori delle caserme. 

I terreni di Prati, afferma Calderini nella sua relazione, tormentati dalle sonde, trivellati dai pozzi di prova hanno confermato di essere «permeabili e comprimibili». Mentre a profondità quasi inarrivabile stanno nascoste le superfici di massima solidità, esiste fra gli otto e i dieci metri dal piano di campagna un banco cretaceo mediocremente atto a buona fondazione.

Come temperamento capace di adattare la viziosa natura del fondo a sorreggere un grande edificio, il Calderini pensò di ricorrere ad una platea generale di calcestruzzo di uno spessore tra i due metri e i due e quaranta, adottando lo stesso procedimento usato dai costruttori dell’antica Roma sia nelle fondazioni del Colosseo che in quelle delle terme o del Pantheon. Con questa platea si ottiene di ripartire il carico dell’edificio in maniera omogenea; si poteva quindi nutrire «sicura fiducia di felicissimo risultato!». Il Calderini prevedeva eventualmente un abbassamento uniforme dell’edificio, come conseguenza della compressione del suolo (e lo si è avuto, sembra, nella misura di 18 cm), ma non un affondamento ineguale che avrebbe provocato il dissesto almeno parziale delle strutture.

D’altra parte, resta il fatto che l’attiguo Castello non posa su terreno diverso da quello del palazzo e, per quante vicende gli abbiano riservato i secoli e gli uomini, non dà segno di vetustà: cosa questa che conferma la teoria del Calderini, allo stesso modo che la confermano le minori costruzioni del quartiere dove le sottostanti marne incoerenti e le falde d’acqua provenienti dalle infiltrazioni del Tevere, dall’assorbimento dei terreni un tempo acquitrinosi e dagli scoli di Monte Mario non hanno provocato particolari difficoltà di costruzione e di conservazione. Senza ricorrere per la loro minore mole alla piattaforma, è bastato ai costruttori di allargare convenientemente i muri di fondazione, in modo da scaricare largamente e più uniformemente possibile le pressioni dei carichi edilizi.

I lavori di costruzione della piattaforma avvennero nell’iniziale periodo di grazia dei lavori, quando si aggredì l’impresa con tale entusiasmo che 1400 operai divisi in turni di otto ore, lavorando anche di notte con la luce di 24 lampade ad arco da mille candele, riuscirono a completare la grande gettata in 74 giorni. L’ottimismo generale, manifesto in una relazione di poco posteriore del ministro dei Lavori Pubblici Finali e in quella del Calderini già citata, lascia fondatamente credere che il lavoro sia riuscito a regola d’arte. In particolare, Guglielmo Calderini, dopo avere apoditticamente affermato che la «creazione dei monumenti è il vessillo della umana vigoria», fa voti che «la grande opera possa volgere al termine con lo stesso febbrile cammino con cui si è iniziata». Però, aggiunge subito dopo, lasciando intendere di aver previsto su quale scivoloso terreno l’impresa stava per avviarsi, «che i nobili ardimenti dell’arte non siano puniti con le torture della povertà».

La povertà, cioè la sproporzione tra le forze e i sogni, è la prima caratteristica della colossale iniziativa che, pretendendo di emulare gli antichi, non aveva tenuto conto delle differenti basi economiche e sociali che sostenevano le imprese di quelli. L’istituto della schiavitù è la spiegazione fondamentale della possibilità dei romani di realizzare opere mastodontiche. La capacità tecnica anticipatrice, l’indubbio ingegno, la scoperta di fondamentali soluzioni costruttive non avrebbero da soli approdato a siffatti risultati, se non fosse esistita la possibilità di disporre di umana fatica fino allo sperpero e alla distruzione di innumeri vite. Non vuole la leggenda che le Terme di Diocleziano siano state costruite da una legione di soldati cristiani imprigionati e poi avviati all’estremo supplizio?

E si tenga presente che contemporaneamente si dava mano, in Roma, ai lavori per il Tevere, a quelli per il Policlinico, alla costruzione del gran monumento che collocava l’Italia nel cuore stesso di Roma. Di lì a poco si sarebbe avviata la costruzione del nuovo edificio del Parlamento; e intanto si costruivano ponti, si completava via Nazionale, si apriva la strada al corso Vittorio e a via Arenula; si erano appena terminati i Ministeri delle Finanze e della Guerra, mentre tutta la città, in preda alla frenesia del rinnovamento, era colma di cantieri, bloccata da steccati.

La finanza pubblica e quella privata, viceversa, non giustificavano tale iniziativa. La crisi economica serpeggiava nel paese e, in Roma, essa stava per esplodere con la massima virulenza a causa dell’artificiosità dell’industria edilizia, tutta fondata sui fidi bancari. Quando il 14 marzo 1888, re Umberto poneva la prima pietra del palazzo, già i primi crac edilizi erano avvenuti; e tanti altri sarebbero presto seguiti, trascinando nel vortice le banche meno oculate.

Dalla ristrettezza dei mezzi, nascono le mezze misure, le transazioni, gli accomodamenti; e in questo clima d’arrangiamento emergono i furbi e i corrotti, coloro che trasformeranno la volontà zanardelliana di onorare la Giustizia in una sciagura finanziaria e morale dell’Italia e in una mortificazione per Roma.

Una impresa durata ventidue anni

La più intelligente decisione presa dal Comune di Roma negli anni Ottanta fu quella di aderire di buon grado alla richiesta dello Zanardelli di accettare lo scorporo della costruzione del palazzo di Giustizia dal complesso di opere che il Comune stesso era tenuto a fornire sulla base della legge per il concorso dello Stato alle spese della capitale. Era sindaco il marchese Guiccioli, ravennate, il quale, consentendo alla costituzione presso il Ministero di Grazia e Giustizia di un apposito ufficio per sovrintendere alla nuova opera, comunicò tuttavia che, nell’avvenuta ripartizione delle spese, restavano per la costruzione del palazzo solamente cinque milioni e mezzo.

Il 16 marzo 1889, un anno dopo la frettolosa posa della prima pietra, venne aggiudicato un primo lotto di lavori alla ditta Belluni e Basevi, riuscita vincitrice tra 16 concorrenti con un ribasso d’asta del 15 per cento. Tale lotto prevedeva le opere di sterro e di fondazione e la costruzione del rustico del primo piano fino a 14 metri di altezza. Tempo concesso, 30 mesi, fino al 3 ottobre 1891.

In una relazione alla Camera del 29 novembre 1889, il ministro Finali constatava soddisfatto che le previsioni risultavano rispettate.

Lo sterro era stato eseguito, la grande platea generale era stata gettata ed essa risultava di 105.600 metri cubi fra pietra frantumata, calce e pozzolana. La platea era dello spessore di 2 metri in corrispondenza delle fiancate laterali, destinate a salire fino all’altezza di 28 metri, e di 2,40 metri in corrispondenza delle parti centrali dei prospetti principali, destinati ad elevarsi per 3 piani fino a 40 metri di altezza, compresi gli attici. Sulla platea così realizzata era stata intrapresa la costruzione del sistema interno di fognature e le murature di base, costituite da scaglioni di selce fino all’altezza del sotterraneo e da selce e mattoni fmo al pavimento del pianterreno. Da li i muri avrebbero proseguito solamente in mattoni per ottenere un regolare assestamento da compressione e per facilitare l’innesto della muratura stessa col paramento esterno in blocchi di pietra da taglio (travertino).

A questo punto gradirei che qualcuno mi spiegasse la provenienza del racconto, evidentemente leggendario, ma diffusissimo, circa la necessità in cui il Calderini si trovò di abbassare d’un piano la costruzione. Abbiamo veduto invece che il terreno non aveva mostrato alcuna difformità dalle previsioni fatte e che la piattaforma era stata gettata con assoluta regolarità. D’altra parte il progetto disegnato dal Calderini e compreso nella sua relazione ufficiale del 1890 mostra un fabbricato delle dimensioni e dell’altezza di quello attuale. Come si è formata la leggenda?

Essa deve essere il fruttò della composizione di differenti elementi: primo, l’atmosfera di sospetto che ha gravato per lustri sulla costruzione; secondo, le lunghe interruzioni avvenute nel corso dei lavori; terzo, il fatto che le ali laterali erano state concepite di due soli piani, sia per rispettare il regolamento edilizio comunale, sia perché i loro prospetti su strade non eccessivamente larghe non avrebbero avuto la possibilità di essere goduti dal riguardante così come i prospetti volti al Tevere o alla piazza.

Ma forse il motivo che, combinato coi precedenti, ci dà piena ragione della leggenda, sta nella rabbiosa decisione dello Zanardelli di fare demolire il secondo piano delle ali laterali quando dovette constatare a quali indecorose soluzioni costruttive aveva portato il dissenso creatosi tra il progettista e l’ufficio del Genio civile cui, in un secondo momento, era stato assegnato il compito di sovrintendere ai lavori. Raccontano testimoni che il ministro, salito sulle impalcature, dopo aver lasciato il letto dove giaceva ammalato, venne preso da un travaso di bile e la scaricò sul malcapitato Calderini.

Concluse lo sfogo ordinando di demolire tutto e di ricostruirlo in buona forma, secondo più idonee soluzioni, rispettose dell’estetica, costasse quel che costasse.

L’episodio, riferito alla Commissione di inchiesta costituita dal Parlamento all’indomani della inaugurazione del palazzo (l’inaugurazione con solenne adunanza della Cassazione è dell’ 11 gennaio 1911 e la proposta di inchiesta parlamentare è del giorno 28 dello stesso mese), costituirà motivo di deplorazione tacita per il ministro. Egli, però, già da parecchi anni, era entrato nella sfera di competenza di ben altra Giustizia e aveva dovuto abbandonare la bella villetta costruitasi sul Garda con la stessa pietra di Rezzara (il botticino) che era stata impiegata nel monumento a Vittorio e nell’interno del palazzo (si indagò anche sulla circostanza che fornitrice della pietra alla villetta e alle due costruzioni monumentali risultava essere la stessa ditta, la Graffuri e Massardi di Brescia).

Del resto, se veramente si fosse verificato un siffatto contrattempo (la necessità di ridurre di un piano l’altezza), la cosa avrebbe cagionato tali riflessi nella progettazione (necessità di revisione generale del progetto per riportarlo in giuste proporzioni generali) e nei costi che non potrebbe non esserne rimasta traccia vistosa. Soprattutto la Commissione, che ha indagato su tutto, non avrebbe certo taciuto su questo punto ascrivibile a leggerezza nella scelta del terreno, sia da parte dei politici, sia da parte del costruttore.

Una storia di abusi e di accomodamenti

Comunque, erano passati appena pochi mesi dalle prime constatazioni euforiche, che si profilavano i guai. Ecco le prime denunce su asserite forniture di materiale scadente, regolarmente accettato dal cantiere: pozzolana e pietra tufacea di Grottarossa fornita al posto di materiali di più nobili provenienze, mattoni di terra dolce e altri materiali mai usati fino allora in costruzioni di un certo impegno. Si asseriva che questo fosse il risultato delle pressioni a favore di certi fornitori e che, da parte sua, l’impresa appaltatrice si mostrasse corriva ad accettarle come accettava quelle per il mantenimento al lavoro di un numero esuberante di operai, a causa della disoccupazione edilizia ormai dilagante. Essa infatti si preparava a rifarsi abbondantemente del 15 per cento di ribasso d’asta, mettendo sul tappeto una innumere serie di richieste: lamentele per ritardi causatile nello sviluppo dei lavori, conseguenti maggiori oneri incontrati per il rincaro dei materiali, usura degli impianti di cantiere non sufficientemente utilizzati e così via. L’amministrazione, purtroppo, ricattata con la minaccia dei licenziamenti, fece come la monaca di Monza; disse di sì una prima volta. E da quel momento le si aprì davanti il baratro delle riserve e delle contestazioni delle ditte che si succedettero.

Per farla meno lunga possibile, basti dire che, dopo un prolungato tergiversare, nel 1892 si dovette estromettere l’impresa e i lavori proseguirono in economia. Abbiamo conosciuto i lavori a regia nel dopoguerra per giustificare una paga ai disoccupati; si trattò di qualcosa del genere a favore di 400 scalpellini, dalla voce pubblica denominati «scalpellini di Stato».

Comunque occorrevano ancora 2 milioni e mezzo, più della metà dell’importo del lotto, per arrivare a finire il primo piano. Non fu facile ottenere dal Tesoro un ulteriore stanziamento e si ipotizzò anche la possibilità di limitare «temporaneamente» la costruzione del palazzo al solo primo piano, rimettendo a tempi migliori il completamento del progetto. Comunque, fatto calcolare nei dettagli esecutivi il preventivo di spesa dal Calderini, questi arrivò, si dice, a 26 milioni, mentre la Commissione ministeriale per il palazzo ritenne che si sarebbe arrivati a 37, se non si fosse proceduto alle congrue riduzioni da essa proposte, in modo da portare la spesa tra 23 e 33 milioni. Tuttavia la legge 6 aprile 1893 fissò il limite massimo a 20 milioni.

È adesso il turno della ditta Marotti, vincitrice della licitazione per il completamento del primo piano al prezzo di L. 2.420.000; i nuovi lavori vanno da metà del ’94 a metà del ’96 con il consueto codicillo di contestazioni dell’impresa e successivi lodi arbitrali. Ma se non è terminato il palazzo, tanto meno lo sono le traversie amministrative. Il Calderini ha dovuto rielaborare più volte il progetto esecutivo in maniera da restare dentro la previsione della legge (20 milioni); finalmente si arriva ad un progetto che prevede una spesa di 16 milioni, oltre quelli già spesi, con speranze tuttavia di economia. E, per meglio economizzare, si pensa a due diversi appalti: uno per il rimanente rustico (circa 10 milioni) ed uno per le finiture e le decorazioni (circa 5 milioni e mezzo). Vincitore del primo appalto risulta un certo Pasquale Borelli che, alla successiva indagine parlamentare, figura essere stato un prestanome di avvocati napoletani maneggioni, in seguito arrivati alla Camera come rappresentanti del popolo. Il Borelli consegue l’appalto per 8 milioni e mezzo, già meditando di rifarsi abbondantemente approfittando delle lentezze della burocrazia, degli accomodamenti coi direttori dei lavori e delle pressioni politiche che gli agevoleranno la via dei lodi arbitrali.

Nasce una nuova complicazione con l’idea del ministro Prinetti di sopprimere lo speciale ufficio per il palazzo, affidando le opere al Genio civile, insieme con i lavori per il Tevere e con quelli per il Policlinico. Alla luce delle successive constatazioni, il Genio civile, coi funzionari addetti al palazzo, non brilla per competenza, per solerzia e per difesa degli interessi pubblici. Di più, si crea un grave stato di frizione col Calderini, associato alla direzione dei lavori, che dovrebbe considerarne tutte le richieste.

L’impresario Borelli si insedia nel cantiere nell’aprile del ’97 avendo tempo per completare il lavoro fino al giugno del 1901. Nel 1899, pur avendo già cominciato col sistema delle riserve ad ogni piè sospinto e pur non dimostrando alcuna solidità imprenditoriale, consegue anche l’appalto per le finiture e per le opere artistiche (nel frattempo si è espletato un concorso affollatissimo per la realizzazione di statue in piedi e sedute, gruppi allegorici, statua della Legge, fregi, una quadriga, una lupa coi gemelli). Ma le opere vanno tanto a rilento che si trova logico utilizzare i residui dei fondi che si accumulano, stornandoli a favore di altre opere pubbliche.

La Giunta del Bilancio nel 1905 lamenta: «È dolorosa la constatazione del modo come procedono i lavori in Roma dove lo Stato profonde per anni ed anni milioni in opere di cui non si giunge mai a trarre alcun risultato». Ma il pianto greco non migliora la situazione.

La ditta Borelli piazza più grane amministrative che massi di travertino nella costruzione. Eppoi ritarda gli appalti degli impianti tecnici. (Fra l’altro si decide di costruire fuori dal palazzo, sulla via Triboniano, uno speciale edificio per allogarvi gli impianti di riscaldamento e di aerazione. È l’edificio poi demolito che spicca con la sua ciminiera nelle foto dei primi tempi dopo l’inaugurazione del palazzo). Stanco della situazione, nel 1908, il ministro Bertolini afferma alla Camera che la costruzione è stata finora condotta con incoscienza da parte di tutti i partecipanti. Dannose sono state le interferenze di politici e di amministrativi, mentre i tecnici hanno dimostrato una totale assenza di idee esatte circa i mezzi necessari per il fine: ignoranza di quel che si voleva e del denaro occorrente; nebulosi anche i postulati artistici.

Non si sa se fosse legittimo per il ministro arrivare ad esprimere giudizi in materia artistica; il fatto è che licenziò il Calderini e, non potendo licenziare il Genio civile, ne censurò alcuni ingegneri, dopo aver messo all’opera una prima commissione d’inchiesta.

La tirata di freni del ministro portò ad un risultato positivo. Due anni dopo, il palazzo era terminato. Ma che cosa era successo nella tumultuosa fase finale, quella delle finiture, consistenti anche nella applicazione delle enormi placcature in pietra, esterne ed interne? È interessante leggere le deposizioni degli scalpellini di fronte alla Commissione. Materiale scartato da una parte veniva messo in opera da un’altra; blocchi di travertino con lesioni o cavità venivano aggiustati con uno speciale composto detto «acqua miracolosa»; teste di toro, che avrebbero dovuto essere in travertino, venivano colate in cemento e poste in opera allontanando subito i ponti in modo da evitare i controlli; stuccature sostituivano parti previste in pietra e chi può dire se e dove siano state poste in opera sbarre di collegamento di ferro anziché di bronzo?

L’avvenire del palazzo

Questo monumento (bello o brutto, non significa molto) è il prodotto di un’epoca significativa della nostra storia nazionale, un’epoca di enfasi, ma anche un’epoca che ha grandi meriti verso il Paese e verso di noi. Nel palazzo ci sono i suoi sentimenti fatti pietra. Ci sono anche i suoi peccati, le sue malversazioni, le debolezze dei funzionari corrivi, e via di seguito. Dobbiamo accettarlo per quello che è, come accettiamo il resto delle strutture del Paese, facendo il possibile per migliorarle e per consolidarle. Vogliamo ricordarlo anche come si era ridotto: un affastellamento di uffici dove erano stati previsti maggiori spazi. Esso era nato per essere un monumento della Giustizia e non una macchina ingolfata.

Rimesso in sesto e in ordine, il palazzo da alcuni anni ha cominciato ad ospitare gli organi superiori dell’ordinamento giudiziario, dalla Corte di Cassazione ad altre strutture di vertice. In un nuovo equilibrio di strutture e di funzioni è ormai possibile scoprirgli una ben diversa dignità, quella che il guardasigilli Fani gli riconosceva nel discorso di inaugurazione. Nonostante il dispendio cagionato, nonostante le vicende diverse, egli lo proclamava «il maggiore degli edifici della terza Italia». Comunque sentiamo quel che ci dice, con pacatezza e con ragionevolezza, applicabile anche alla situazione contemporanea, Giovanni Giolitti: «Lo studio diligente delle cause di ciò che avvenne e delle responsabilità che vi possono essere potrà giovare per le opere che il governo dovrà compiere in avvenire».

Il monito giolittiano appare di maggiore attualità alla luce degli insegnamenti tratti dalle recenti opere di consolidamento e di restauro. Queste furono avviate nel 1978, dopo che il relativo bando, superato un periodo di incertezze, venne lanciato nel 1975. Appaltatrice risultò l’impresa ICCLA che fino al 1990 aveva realizzato lavori per 55 miliardi, mentre ne erano preventivati altri per ulteriori 70 miliardi. Questi, negli anni successivi, hanno cominciato ad essere erogati per quote graduali. Sono state consolidate le fondazioni per mezzo di una «struttura scatolare» costituita da muri in cemento armato. Per alleggerirle sono state asportate enormi quantità di quella terra che vi era stata depositata dal Calderini. È stata anche restaurata e ripulita la facciata sul lungotevere, mentre si deve provvedere ancora alle restanti. Sono stati restaurati anche parti decorative ed affreschi dell’Aula magna e sono stati ricavati i locali per la Biblioteca centrale giuridica. I lavori dovrebbero essere terminati entro il 1995.

(brano tratto da Ravaglioli A., I palazzi della giustizia, Roma, 1995)

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